
Il tempo scorre, inesorabile, sul cronometro di tiro. Mancano una ventina di secondi, o una trentina. Non importa, in realtà. Il PAOK sta vincendo. O forse no. Ancora una volta, non conta. La frangia bianconera della Salonicco cestistica non ha smesso di cantare per tutti i quattro quarti, per ogni quarto. E continuano.
“Είναι τρελός, είναι τρελός ο Ιταλός!” Si sgolano così, all’unisono: “È matto questo italiano”. Il sorriso inizia ad espandersi sul volto di chi, fino alla soglia dei 50 anni, non aveva mai preso in reale considerazione l’eventualità di uscire dai confini italiani, sedendosi sulla panchina di squadre straniere.
È successo tutto nel giro di poco tempo, per Massimo Cancellieri. Amore a prima vista con Limoges, l’unica squadra francese capace di vincere una Coppa dei Campioni, a un passo dalla gloria con Strasburgo, dove poco prima aveva inserito i propri dettami un altro italiano come Luca Banchi. E poi un’immersione a fondo nel Mar Egeo, cercando di riportare a galla la gloria eterna del PAOK: quattro lettere che condensano trionfi memorabili, passione sconfinata.

“È matto questo italiano,” gli cantano in coro. E lui sorride, si meraviglia in un primo momento. Ricambia l’applauso e la stima, e si inchina. “A Biella mi cantavano ‘Cancellieri uno di noi’. Sono stato lì sei anni, sono stato benissimo. Veramente mi sentivano uno di loro. Ma il fatto che ti dicano una cosa del genere a Salonicco, quando arrivi e nessuno sa chi sei, un po’ fa effetto. Mi fa venire i brividi. Poi devi essere razionale nelle tue scelte, ma quei 20 secondi a fine partita quando hai vinto, c’è adrenalina e la gente ti riconosce, è bellissimo”.
Un rituale che aveva già toccato i tasti giusti per Claudio Coldebella, con i greci dal 1998 al 2002, e Mirko Taccola, oggi allenatore di Scandicci, ex calciatore passato anch’egli da queste parti a fine anni ‘90. Sull’altra metà campo del parquet, a Thessaloniki, una trentina d’anni lo stesso tributo veniva dedicato a Mario Boni da parte dei tifosi dell’Aris. “Tutti e tre abbiamo avuto il fervore tipicamente italiano, di approcciare ogni partita così. A loro piace che chi li allena abbia e mostri questa passione. Te lo dicono con affetto, amano che tu sia così appassionato. È bello sentire in una Nazione che non è la tua della gente così contenta di te. Fa piacere. Questo non lo potrò mai dimenticare”, dice il 52enne tecnico italiano, alla sua prima annata in Grecia.
E che annata: dopo tre decenni, il PAOK è a una serie (andata e ritorno) di distanza da un trofeo continentale, la FIBA Europe Cup. Già di per sé una cavalcata di successo, che inserirà senza data si scadenza questo gruppo nella cassaforte dei ricordi, per questi tifosi. Un esito, quello che li ha portati al doppio scontro decisivo con Bilbao, che forse non sarebbe stato possibile senza una sua recente maturazione. Non è mai troppo tardi per migliorare, d’altronde.
La curiosità del crescere, senza fretta
“Forse mi sono adeguato a dei cliché“, inizia a spiegarsi Massimo Cancellieri. Il tono è riflessivo, impegnato; scandagliare la memoria alla ricerca della parola giusta è un esercizio affinato, ma lui la trova senza grosse difficoltà. Ma a quali cliché si riferisce, quali abitudini consuetudinarie ne hanno caratterizzato la carriera, prima d’ora? “Per essere un allenatore di alto livello bisogna essere molto esigenti, e per essere molto esigenti bisogna avere carattere e personalità, e cosa significano carattere e personalità per un allenatore? Essere duri. Mi sono buttato su questa convinzione senza riflettere che la base di partenza fosse corretta, al contrario dell’attuazione. Vedevo solo un canale comunicativo: il mio. Sottovalutando il feedback che veniva dalla squadra”.
È questo lo shift mentale che ne ha caratterizzato la gestione delle risorse a sua disposizione. È parte integrante del gruppo, non un elemento che lavora con il gruppo. “A 52 anni”, dice “sono riuscito ad accettare che qualcosa l’abbia capita“. Non se ne vergogna, anzi: lo slancio verso un territorio finora inesplorato nella sua carriera da allenatore sta proprio in questa crescita e assunzione di innovata consapevolezza. E se prima “questo concetto di coesione era deviato,” in questa stagione, invece, si è navigato con il vento a prua, dirigendosi nella stessa direzione. Forse ostinata, sicuramente contraria rispetto alle sue prime parentesi: tanti anni da assistente a Milano e a Teramo, sei stagioni da figlio adottato a Biella, le annate con Veroli, Montecatini e Ravenna. Sempre in Italia, fino al 2021. Poi, delle valigie che hanno intercorso nastri trasportatori in aeroporti esteri.
“Sono sempre stato curioso in merito a come si potesse svolgere la stessa professione ma in un Paese diverso. Penso che la pallacanestro sia la stessa, ma che la cultura tanto dello Stato in cui si gioca, dei coach, degli addetti ai lavori e dei giocatori locali sia un po’ differente; l’approccio è differente. Mi ha sempre intrigato andare ad allenare all’estero e allo stesso tempo, quest’eventualità è avvenuta per caso”, dice della piega che ha caratterizzato il recente passato della tua traiettoria da allenatore.
Per iniziare, non poteva capitargli occasione migliore che parlare una lingua comune, costruire un ponte comunicativo tra l’italiano e i francesi, eretto sull’affezione per il Limoges, a Limoges. “Mi sarebbe piaciuto confrontarmi con altre realtà. Avevo iniziato a guardarmi in giro all’estero, per vedere se ci fossero delle opportunità, e una è arrivata proprio da Limoges. Non potevo aspettarmi di meglio, perché è un club con una storia incredibile, l’unica in Francia ad aver vinto la Coppa del Campioni, oltre che un sacco di campionati nazionali. Quello era un ambiente che si rifaceva molto a un approccio al lavoro che ho sempre fatto mio: l’essere passionali. Amano la squadra in assoluto, in maniera viscerale, e ci siamo avvicinati naturalmente”, racconta.
Da cosa nasce cosa, e due stagioni a Limoges aprono le porte per un’altra esperienza in terra transalpina. Questa volta, tocca a Strasburgo, che allena fino all’estate 2024. Tempo di riassaporare una passione sconfinata, “viscerale” come piace definire al nativo di Teramo. Ancora una volta, senza cercarla di proposito, fissando la calamita nel cuore e culla della civiltà occidentale, bagnata dal Mediterraneo. “L’aver avuto esposizione in Francia mi ha permesso di proseguire una carriera all’estero. Non è che avessi lavorato specificatamente per venire ad allenare in Grecia, ma è capitata l’opportunità. Non puoi dire di no al PAOK; anche qui, come a Limoges, la cultura della passione per la squadra è inarrivabile. L’amore per la squadra è immenso”.

Un legame che in questi mesi ha imparato a toccare con mano, coltivandolo partita dopo partita, con un gruppo di giocatori unito dall’intento comune di scorrere il passe-partout nella serratura dei ricordi bianconeri. Ma allo stesso un amore, un sentimento che scorre, che aveva già osservato da vicino, nonostante si trovasse dall’altra parte della barricata. “Ho avuto la fortuna, tanto con Milano che con le squadre francesi, di giocare in Grecia in passato, nelle coppe europee. Mi aveva sempre affascinato la costante atmosfera da derby che abbiamo da noi, dei pienoni, di andare al palazzetto in primis per sgolarti facendo il tifo per la tua squadra. Ogni volta che sono venuto qua quest’atmosfera mi rapiva”, dice con emozione.
“Un giocatore che aveva giocato al Panathinaikos una volta mi aveva detto che sarei stato perfetto per il PAOK; io non sapevo molto, mi ricordavo della storia della società ma non ero mai stato a Salonicco. Qualche mese dopo, mi chiama il PAOK. ‘Mi sa che devo andare’, mi sono detto. Due indizi fanno una prova. Sono arrivato senza chiedere troppo. Siamo riusciti a raccogliere buoni risultati e adesso è bellissimo. Mi ricorda Biella, mi ricorda Teramo: una passione cestistica così trascendentale che la gente ti ringraziava per strada. Il risultato non importa più: tutti amano la squadra e i suoi giocatori”.
Ritrovarsi a casa, lontano da casa
Come detto, la sua prima stagione da capo allenatore al PAOK è anche e soprattutto speciale per aver centrato un obiettivo mancante dal secolo scorso: tornare ad essere altamente competitivi per un trofeo europeo. In questo caso, la FIBA Europe Cup, per cui il PAOK si è strappato un pass alla finale dopo una semifinale da cuori forti contro Cholet.
“Il risultato è stato sempre bilanciato, è stata una dogfight in entrambe le partite. Abbiamo pareggiato il loro talento con voglia e intensità. Quando approcci una semifinale e sai che gli avversari sono di ottimo livello, ti prepari per cercare di non sbagliare nemmeno una comunicazione. Durante la partita ci siamo sempre detti che questa serie si sarebbe decisa possesso dopo possesso. Non quarto dopo quarto. Questo ha dato una mano quando eravamo sotto di 13 nel secondo tempo, a Cholet. Stando tranquilli, sapevamo che possesso dopo possesso avremmo potuto recuperare. E l’abbiamo fatto“.
L’aver raggiunto l’ultimo appuntamento con la gloria grazie a una vittoria in rimonta in Gara 2, in seguito alla tripla dell’ex Trieste e Brindisi Frank Bartley IV che ha forzato l’overtime, ha riportato alla mente di Massimo Cancellieri un’altra sfida cruciale della sua recente carriera in cui aveva accumulato karma positivo. “Ci sono stati episodi clamorosi e fortunati, come quel buzzer-beater, ma tutto gira: l’anno scorso ho perso la Coppa di Francia dopo che negli ultimi tre minuti abbiamo sbagliato tutti i tiri. Ed erano tutti aperti. Questo è il bello di questo sport: devi sempre essere pronto a reagire a una situazione che cambia come il vento. In mare aperto, se non sei esperto la nave si ribalta”, dice.
Come accaduto in tante altre occasioni, non erano da soli a compiere quest’impresa. Alla fine della partita, mentre Massimo Cancellieri si dirigeva a stringere la mano a Fabrice Lefrançois, centinaia di tifosi bianconeri festeggiavano l’impresa. Come detto, non è stata un’epifania. “In casa, abbiamo avuto il pubblico delle grandi occasioni solo in poche partite: con l’Aris, con l’AEK, con l’Olympiacos. Ma paradossalmente giocare la coppa ci ha dato una mano, visto che tantissimi tifosi presenti all’estero sono sempre venuti alle partite. Questo ha cominciato a creare un legame con la squadra, che ha visto 150 persone sugli spalti per noi a Oporto. E dici: “Com’è possibile?”.
“Qualcuno è partito, ha fatto due scali, ma la maggior parte venivano da lì. È successo in Belgio, in Romania, in Ungheria, a Friburgo, in Francia a Digione: ovunque, sempre 100-150-200 persone a sostenerci. Ma adesso è la svolta: provare ad ottenere un risultato importante da underdog sta raccogliendo un sacco di affetto e supporto. Qui c’è gente che prende le ferie per venire a vedere le partite. Non va a lavoro per prepararsi. Sono cose onestamente molto belle da vivere”.

In un’intervista rilasciata ai canali ufficiali del PAOK, il Maestro – così com’è definito dal mondo che ruota attorno all’universo bianconero – ha detto che il suo più grande augurio è che questa specifica squadra entri nel cuore dei tifosi, a prescindere dei trofei vinti. Osservando il tipo di legame che si sta sviluppando con il passare delle settimane, Massimo Cancellieri potrebbe già aver raggiunto il suo obiettivo.
Il merito? Del gruppo, ancora una volta. “I ragazzi sono stati molto bravi. In una situazione non facile, senza grossissima esperienza in molti sono venuti qui e si sono subito resi conto della storia di questa società, dell’amore e dell’attaccamento particolare; io penso che questo sia stato il messaggio mandato da questo gruppo, che poi è stato rispettato. I tifosi del PAOK amano e supportano il PAOK a prescindere, ma riconoscono che questi giocatori stiano facendo qualcosa di grande per la loro squadra del cuore. Questo lega tutto, e la maionese è pronta”, commenta.
Al contempo, come sottolineato in precedenza, è frutto della sua crescita personale. Dell’acquisizione di consapevolezze differenti. “A volte non sono stato capace di contestualizzare il lavoro da fare nella squadra. Siamo partiti in un modo e finiti in un modo. Secondo me questo non funziona. Bisogna essere un po’ alla Zelig, come direbbe Woody Allen: camaleontici, adattandosi al momento e alla situazione in cui ti trovi, capire quali sono i feedback che ti dà la squadra e quindi poi comportarti di conseguenza”, dice.
“Nel passato ho sempre pensato che il mio fosse il modo corretto per allenare, ma alla fine le squadre arrivavano svuotate. Non mi vergogno a parlare di me in questo senso qui. A volte la ghigliottina è figlia dei risultati, che vengono dal lavoro che fai: se lo sbagli, la squadra può avere meno energie mentali e fisiche. Quest’anno siamo arrivati meglio, e penso che questo sia legato più a quanto io riesca ad ascoltarli e adattarli. Per la prima volta penso di averlo fatto. A Limoges siamo arrivati quarti, ne abbiamo vinte dieci di fila. Ma c’è stato un momento in cui perdemmo cinque partite e facemmo una riunione: i ragazzi furono bravi ad analizzare, ma c’è stato comunque bisogno di una riunione. Quest’anno è tutto diverso: ci siamo sempre detti le cose, ognuno ha ascoltato l’altro. Io mi sento migliorato in questo“.
Un tipo di maturazione che, forse, non avrebbe vissuto in prima persona senza allontanarsi dall’ovile: “Andare all’estero è difficile perché le culture sono naturalmente differenti. Devi prima stare in disparte, ascoltare, capire come si comportano; e poi mettere in pratica gli insegnamenti, inserendoci qualcosa di tuo. Ci vuole un po’ di tempo per abituarsi. È strano, è come andare sulla luna, in qualsiasi Paese: ti senti lontano da casa ma è una figata. L’Italia mi manca, ma qui ho trovato molto della nostra cultura, senza parlare della loro conoscenza cestistica: tutti e tutte sanno, parlano e vivono di pallacanestro. I tifosi dell’Aris mi fermano e mi fanno i complimenti. Poi magari mi dicono: ‘L’anno prossimo vieni da noi’. Dal punto di vista emotivo mi sento in paradiso”.

Quando sente all’unisono un canto dedicato a pochi, quando non mantiene la fibrillazione per l’esito della semifinale, quando percepisce l’amore di gente prima sconosciuta, e ora più vicina che mai: Massimo Cancellieri ha trovato una casa lontano da casa, a Salonicco. Scrivere la storia del PAOK è solo una conseguenza.
Cesare Milanti
Foto: FIBA Europe Cup