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Roberto Carmenati, 20 splendidi anni ai Mavericks (e un Anello) grazie a… Podkolzin
Com’è quel detto? Si chiude una porta e si apre un portone? Ecco, per Roberto Carmenati nel 2004 si è spalancato un castello. Nel momento più complicato della propria vita professionale, per il classe ’64 nativo di Fabriano si è palesata un’opportunità di enorme prestigio: entrare nella famiglia dei Dallas Mavericks come International Scout. Nella nostra chiacchierata partiamo da qui, partiamo da quell’estate di vent’anni fa.
“Ero reduce da una stagione a Fabriano che fu un’Odissea con il fallimento della società e gli stipendi che non arrivavano e poi dall’anno in panchina all’Olimpia Milano all’interno di una situazione societaria ugualmente complicata ed ero incerto se proseguire o meno con quell’avventura. L’arrivo di nuovi soci accanto a Giorgio Corbelli ha portato il club a fare altre scelte e quindi anche la mia incertezza è venuta meno. Mi recai allora negli States dove ero già stato anche con un’esperienza nella lega estiva USBL da assistente di Kareem Abdul Jabbar con gli Oklahoma Storm (nel 2002 vincendo il titolo, ndr). Entrai in contatto con la realtà di Dallas perché lessi sul giornale che avrebbero voluto spendere la scelta numero 5 al Draft per Pavel Podkolzin: io il russo l’avevo affrontato in Serie A contro Varese e non mi pareva un elemento che potesse essere utile, così tramite amici comuni conobbi il coach Avery Johnson e gli esposi quella mia considerazione. Conquistai la loro fiducia ed eccomi qua. Si può dire che Podkolzin fu il mio cavallo di Troia”.
Da quel momento Carmenati ha visionato e raccolto informazioni centinaia e centinaia di giocatori, di prospetti, di elementi in rampa di lancio e di cacciatori di seconde occasioni. Un lavoro che lo ha portato a muoversi attraverso dinamiche totalmente diverse, se non addirittura opposte, rispetto a quelle vissute da allenatore e da vice in Italia. “Nella costruzione delle squadre ero abituato a puntare sulle seconde e sulle terze scelte, cercando di prendere il meglio di quello che passava il convento. È stato uno shock estremamente favorevole quando le discussioni che mi coinvolgevano hanno iniziato a vertere sul concetto di prendere il prospetto migliore disponibile. Per me è stata una rivoluzione copernicana dopo anni in cui quelli di prima fascia non potevano essere obiettivi sensibili e quasi nemmeno li guardavo”.
Tutto questo comporta un’accurata attenzione nello scegliere il giocatore da segnalare. “Non si può sparare un nome tra tanti di quelli che circolano sul mercato ma bisogna indicare chi per potenzialità o per caratteristiche o per stile di gioco o per valore assoluto possa portare qualcosa di speciale. Quando vado a partite e allenamenti organizzati ufficialmente di tutto punto cerco di individuare questi fattori in un ragazzo. Il tutto con un confronto continuo e con una decisione sempre collegiale, anche se poi naturalmente la parola finale spetta al General Manager. È un metodo di lavoro che rappresenta l’aspetto del lavoro in NBA che mi ha favorevolmente colpito. Le franchigie nello scouting investono una fetta consistente del budget, per loro rappresenta un punto nodale dello sviluppo della squadra e quindi ovviamente c’è enorme cura in tutto il processo. Se invece devo dire un lato per me negativo dell’NBA, apprezzo molto meno la brutalità che talvolta c’è nell’esclusione dei giocatori ma è chiaro che parliamo di un imbuto così stretto ad un livello così alto che inevitabilmente non si può andare troppo per il sottile”.
Di giocatori osservati e indicati da Carmenati e presi dai Mavericks ce ne sono moltissimi. E se quello di maggior impatto per la storia della franchigia è innegabilmente Luka Doncic, ci sono altri nomi che all’ex coach fa piacere menzionare anche perché permettono di approfondire meglio come funziona il suo lavoro. “Rodrigue Beaubois giocava nello Cholet insieme a Nando De Colo. Nel 2009, l’anno della finale di EuroChallenge persa contro la Virtus, era diventato un tiratore da 3 mortifero, i suoi test atletici erano pazzeschi, insomma gli mettemmo gli occhi addosso. Nello stesso periodo uno dei prospetti più in voga era quello di Brandon Jennings, che giocava a Roma: io li misi a confronto sostenendo che Beaubois, partendo ovviamente da aspettative diverse, avrebbe potuto avere un impatto superiore come giocatore di rotazione, cosa che poi avvenne. Nel 2015 Dallas aveva seguito DeAndre Jordan che poi all’ultimo momento era rimasto ai Clippers. per i Mavs allora c’era bisogno di un lungo che fosse almeno utile e che rientrasse nel Salary Cap. Salah Mejri era rimasto senza squadra: io ero convinto che le sue caratteristiche di agilità e di “rim protector” si incastrassero bene con quelle di un Dirk Nowitzki non più di primo pelo. Il tunisino ebbe poi degli infortuni che lo condizionarono molto, a differenza di Maxi Kleber che gli infortuni li ha avuti prima dell’esperienza NBA peraltro anche banali come sbattere il ginocchio contro una sedia. Lui fu bravo a recuperare andando in Spagna nell’Obradoiro e poi esplodendo nel Bayern quando fu più facile mettere sul tavolo il suo nome”.
Tutte queste opportunità di lavoro sono state rese possibili per la particolarità della struttura di Dallas. “Il gm Donnie Nelson è stato uno dei pionieri dell’apertura NBA verso i giocatori cresciuti in Europa e nel resto del Mondo e questa visione se l’è portata sempre dietro, condividendola con il proprietario Mark Cuban. Basti pensare che ad un certo punto fu stabilito a tavolino di lasciare un posto ogni anno per un giocatore non USA: si creò spazio per giocatori come Stefansson, Mekel o Brussino. Non tutti hanno lasciato segni indimenticabili ma intanto si era aperto uno spiraglio da sfruttare. Da quando ho iniziato il trend generale è decisamente cambiato e lo sguardo verso gli International lo hanno mosso tutti, non solo nel tentativo di prendere buoni giocatori che impattino meno sul Salary cap”.
Una carriera spesa sulle panchine di Fabriano, Livorno, Trapani, Pozzuoli e Napoli oltre a Milano prima di appendere la lavagnetta al chiodo e iniziare un’avventura enormemente gratificante. “Sì, ma devo essere sincero: ogni tanto fare il coach mi manca. È l’altra faccia della medaglia: da una parte fai parte di un’organizzazione di altissimo profilo e ti può capitare anche di essere membro di una squadra che vince l’Anello, come è accaduto a me nel 2011; dall’altra per uno come me che viveva in palestra, che adorava il lavoro quotidiano quell’aspetto manca”.