La società contemporanea è un frullatore di ambizioni, aspettative, maratone che vengono corse spremendo le proprie energie ai blocchi di partenza, piuttosto che distribuirle in maniera organica. Lo sport – non solamente a livello professionistico, anzi – non viene di certo escluso. Ciò che realmente esce dagli schemi ormai consolidati è chi non arriva all’obiettivo prefissato, per mille ragioni. Oppure chi raggiunge lo stesso traguardo senza immaginarsi la volata in solitaria, a braccia aperte raccogliendo l’aria che sospinge, per utilizzare una metafora ciclistica.
Su un milione di parole, ci sono solamente 0.06 occorrenze del termine late bloomer in inglese moderno, secondo l’Oxford English Dictionary. Questo ci dice molto di quanto sia rara la condizione di chi sboccia per davvero, ma più tardi del solito. Mettendosi in fila. E non importa che l’ideatore del termine, botanico, orticoltore e ornitologo Robert Sweet si riferisse alla crescita di una pianta.
Trovare il proprio punto di fioritura fuori stagione vale anche per artisti, politici, matematici. E sportivi, di ogni tipo. Rocky Marciano non era mai salito su un ring prima dei vent’anni, mentre il due-volte MVP e vincitore del Superbowl 2000 Kurt Warner è entrato in NFL a 28 anni.
Che Pippo Ricci sia appassionato di vegetali, non ci è dato saperlo. Ha di sicuro qualcosa in comune con l’anemone giapponese o la lobelia, con il girasole a foglia di salice o con la genziana autunnale: è sbocciato tardi. “Penso che una caratteristica di tutta la mia carriera sia stata vivere e godersi il momento. Non mi sono mai posto aspettative altissime”, ci dice il neo co-capitano di Milano.
“Forse”, lo dice lui stesso, “è proprio per questo sono arrivato lontano”. D’altronde, nessuno gli ha posto alcun fardello sulle spalle, crescendo cestisticamente dapprima a Chieti e poi alla Stella Azzurra, chiamato da Germano D’Arcangeli e dov’è rimasto dal 2007 al 2011. Un’era fa.
Pippo non ha “mai avuto l’ansia di dover arrivare”. Il perché lo spiega con tutta la franchezza possibile: “Nessuno mi ha mai cagato, fondamentalmente”. Tutto quello che è seguito, vale a dire i quattro anni a Casalpusterlengo e le due stagioni a Verona e Tortona, prima del grande salto, hanno posto le basi per la formazione del giocatore che è oggi. Della persona, soprattutto, che è oggi.
“Il fatto di non avere pressione, ed anche di poter zittire chi non mi dava una lira, mi ha portato a vivere ogni momento provando di dare il massimo. Se ripenso al mio viaggio, è partito tanti anni fa in C2, poi in B2, poi in B1. Senza ambire di giocare in A1, ma magari in A2. Facendo piccoli passi, mi sono comunque goduto tutto”, dice con estrema fierezza.
Soprattutto, essere un late bloomer alla fine non è così male. “Non è stato brutto arrivare tardi: io ho fatto l’esordio in Nazionale a quasi 27 anni (il 29/11/2018 contro la Lituania, ndr), così come in Serie A un anno prima. Non è stato un percorso sbagliato, anzi. Penso di aver fatto ogni cosa al momento giusto, di essere arrivato maturo al punto giusto in ogni scalino”, sostiene Pippo Ricci.
Giampaolo – a volte fa strano ricordare il suo nome, visto quanto sia riconoscibile a tutti come “Pippo” – Ricci ha percorso gli scalini un passo alla volta. Come quando saliva al Santuario di San Luca durante i suoi anni bolognesi. Anni in cui al basket si è affiancata un’altra compagna di viaggio.
Pippo lo studente, Pippo il cestista
Il percorso da late blooming dell’oggi 33enne nato a Roma non sarebbe potuto essere lo stesso senza l’essere coinvolto negli studi, che l’hanno anche portato a salire sul tetto d’Europa dei campionati di basket dell’Università con il Cus Bologna. Matematica e pallacanestro sono stati inscindibili nel corso della sua traiettoria. “Per me erano due pianeti che si alimentavano a vicenda”, dice.
“Quando andava male una partita, avevo l’esame che poteva darmi quella spinta in più. E viceversa: quando l’esame andava male, potevo sfogarmi in palestra. Dico spesso che il giorno in cui passavo un esame facevo il miglior allenamento della mia vita. Ti dà una carica diversa. Poter avere una vita parallela ad uno spogliatoio in cui si parla di basket, basket e basket, mi dava energia”, aggiunge.
La sua proclamazione all’Alma Mater, nei cui bagni aveva esultato “come [Fabio] Grosso ai Mondiali dopo aver passato Algebra2 al quarto tentativo”, era arrivata tre giorni prima di sconfiggere in casa il Barcellona. Ma la sua carriera accademica ha avuto anche panorami meno appariscenti.
“Il basket mi ha insegnato a superare gli esami e l’università mi ha insegnato a non mollare, a prendermi il mio tempo. A respirare prima di un momento ansioso. Erano due universi che si alimentavano e a cui io non riuscivo a fare a meno: né ad uno, né all’altro. Mi hanno aiutato a riempire la giornata, arrivarci alla fine contento, felice di quello che avevo fatto”, si ricorda.
La rincorsa verso la stesura della tesi è stato un cammino lungo, come una serie playoff o una fase a gironi delle Olimpiadi, o del Mondiale, o dell’Europeo. Competizioni che Pippo, entrato nei ranghi della nazionale senior più vicino ai 30 che ai 20, ha giocato tutte nel giro di tre anni. “Io ci ho messo 10-11 anni a finire l’università. Quindi facevi un esame e il giorno dopo pensavi subito all’esame successivo”, dice prima di parlare negli stessi esatti termini della sua quotidianità da cestista.
“Vincevi una partita, perdevi una partita, e tornavi in palestra: per me la chiave è sempre stata tornare in palestra per continuare. Il freno non l’ho mai schiacciato, perché c’era sempre qualcosa di nuovo da fare. Molti ragazzi che magari entrano in Serie A a 18 anni ad un certo punto si sentono sazi. Io invece non lo so mai stato, perché c’era sempre qualcosa di nuovo da fare, da scoprire, un esame nuovo da fare, un allenatore nuovo da colpire, un tifoso nuovo da far innamorare, un campionato nuovo da giocare”, dice Pippo. Scoprendo sempre qualcosa di ignoto.
La medesima sensazione si applica nella conquista dei trofei, cosa in cui il neo co-capitano dell’Olimpia Milano è discretamente bravo. Nelle ultime quattro stagioni, si è sempre trovato dal lato dei vincitori: nel 2021 da capitano della Virtus Bologna, mentre nel 2022, 2023 e 2024 con la maglia dell’altra rappresentante italiana in EuroLega. “Arrivi in Finale e c’è solo la vittoria”, dice. “C’è sempre un fuoco che si auto-alimenta, e questo è il leit motiv della mia carriera: provare a dimostrare sempre qualcosa. A non deludere, perché quando alzi l’asticella tutti si aspettano un risultato o una performance. L’essere circondato da un ambiente sano mi ha portato a volere sempre di più. Ad ambire sempre di più. La fame che avevo quando sono andato via di casa a 16 anni è rimasta quella che ho adesso”, pensa riflettendo agli anni passati a sognare. Pazientando.
Pippo il sostenitore, Pippo il cestista
Affiancando la sua vita sportiva e quella accademica – ora conclusa, ma che sembra non volerlo abbandonare talvolta -, il 33enne cresciuto a Chieti si è reso protagonista di un’altra avventura, questa volta fuori dai banchi dell’Alma Mater Studiorum di Bologna o dell’Unipol Forum di Assago. Giusto a qualche chilometro di distanza, in Tanzania.
La terra dov’è nato suo fratello Pierbruno dall’amore Marisa e Francesco, partiti come medici volontari per aiutare la popolazione locale di Singida, dal 1988 al 1990. A 32 dal loro arrivo in Africa, Pippo e la sua famiglia hanno fondato Amani (pace, in swahili) Education, per creare un’opportunità a chi un’opportunità, per ovvie ragioni, non ce l’ha. Per chi, come afferma lo stesso Giampaolo Ricci, “è consapevole di quanto sia importante l’opportunità”.
Pippo torna in Tanzania – con l’accento sulla i, ci tiene – ogni due anni, seguendo le orme dei propri genitori per restituire ad una comunità che sappia accogliere. E che sappia a suo modo dare opportunità. “Essere stato molte volte in Africa, mi fa capire quanto diano valore alle piccole cose, quelle davvero importanti, non avendo nulla”, racconta con emozione.
“Ho chiesto ad alcuni ragazzi quale fosse il sogno della propria vita e mi è stato risposto “la scuola”. Questa cosa mi è rimasta dentro e creare un’opportunità per loro è una mia missione: si collega al fatto di provare a lasciar qualcosa agli altri”, afferma. Da quando Amani Education ha iniziato ad investire nelle infrastrutture di Kisaki, dall’albero della speranza si stanno traendo alcuni frutti.
“Due mesi fa sono stato in Tanzania e ho toccato con mano quello che sto facendo. Nella scuola ci sono trenta ragazze che potrebbero avere una chance grazie a me, sei professori che hanno un lavoro grazie ad Amani Education, due cuoche e due guardiani che altrimenti sarebbero in mezzo alla strada a fare la fame. L’obiettivo è costruire i dormitori e mettere dentro 120 ragazze. Anche solo avere l’opportunità di cambiare la vita a qualcuno è una cosa grossa”, dice ancora Pippo Ricci.
Pippo il paziente, Pippo il cestista
La sua figura è abbastanza atipica quando si tratta di avere le luci dei riflettori puntate addosso, ma la sua capacità da collante è quella che gli ha permesso di scalare i ranghi della pallacanestro italiana. La sua versatilità si è plasmata con il tempo. “Se guardassi indietro, non cambierei niente del mio percorso: anche gli anni in cui non mi conosceva nessuno mi hanno aiutato ad essere il giocatore che sono adesso, a fare cose in campo che non tutti fanno. Ho imparato ad essere utile: capire il momento, cosa ti chiedano compagni e allenatore”, afferma.
Sbocciare tardi, come ricordato in precedenza, può portare benefici sostanziali. Il miglioramento si tocca con mano, non è repentino. Gradualmente, ti mette faccia a faccia con la realtà. “Pian piano, la gente si è accorta delle mie capacità, e sono contento di esser arrivato tardi. Penso a Marco Giallini, che è diventato attore a 40 anni, ma oggi è uno dei migliori. Penso che a 20 anni non avesse la testa giusta per diventare un attore”, dice. Lo stesso vale per la sua crescita professionale.
“Sono contento di essere arrivato alla maturazione giusta nel momento giusto”, ricorda. Per esempio, nella sua ascesa è risultato fondamentale sbocciare nell’anno in cui Meo Sacchetti, che l’ha reso un elemento imprescindibile della sua Vanoli Cremona – con cui ha vinto la Coppa Italia 2019 -, è diventato commissario tecnico della Nazionale italiana.
Dai primi palleggi a Chieti al suo 33esimo compleanno, Pippo Ricci è sempre rimasto lo stesso. “Semplicemente, la maturazione che è arrivata passo dopo passo, senza mai voler strafare. Penso di non aver mai fatto il passo più lungo della gamba, sono sempre stato con i piedi per terra. E anche ora che sono il capitano dell’Olimpia Milano sono la stessa persona che ero 15 anni fa. Forse questo è uno dei miei più grandi pregi”, afferma.
Se parliamo di late blooming specificamente analizzando la figura di Pippo Ricci, è perché il suo caso è sostanzialmente unico.
Pensateci: quanti giocatori capaci di vivere al massimo livello la propria carriera cestistica hanno un passato diviso a metà, tra una vita “normale” ed un punto di svolta tardivo? Provo ad aiutarvi: nessuno. Un caso che si avvicina, però, c’è.
Nel gruppo guidato da Gianmarco Pozzecco, insieme ai veterani Gigi Datome e Nicolò Melli, oltre che a Pippo Ricci, c’era anche un’altra ala sbocciata più tardi del previsto: Luca Severini. Quando si chiede all’attuale capitano dell’Olimpia Milano se si rivede nella storia del giocatore della Bertram Derthona o di altri late bloomers, la risposta è significativa. “Provo una grandissima stima. Il percorso è lungo, pieno di sacrifici e di ostacoli”, dice con fermezza.
“È fatto di crederci sempre, è avere la pazienza di aspettare il momento giusto. È una roba non da tutti, quindi sicuramente stimo le persone che sono arrivate e che si sono costruite partendo dal nulla. E ci hanno messo tempo. La pazienza è una cosa importante, perché nessuno ti regala niente. Non ti svegli di colpo e boom: sei in Serie A e vinci lo Scudetto. Bisogna avere la pazienza di credere in quello che fai, un trust the process giornaliero”, riflette sul percorso lungo, paziente, di attesa.
La sua, naturalmente, è anche una storia fatta di immedesimazione da parte dei più piccoli. Da parte di quelli che sognano di, prima ma anche poi, sbocciare. “La cosa che mi rende più orgoglioso è che molti ragazzi mi vedono come un modello. Mi capita di ricevere attestati di stima, bambini che mi dicono: “Non sai quanto mi hai fatto bene”. Mi rende molto orgoglioso, mi rende felice”, sorride.
“La cosa più bella che mi hanno detto ultimamente”, aggiunge ancora “è che riesco a seminare qualcosa nelle altre persone, quel qualcosa che rimane e cresce. Penso che sia uno dei complimenti che mi abbiano mai fatto, ma non perché provi ad ostentare questa cosa. Sono me stesso, ma il fatto di venire in palestra mezz’ora prima, sorridere un po’ di più, battere le mani un po’ di più… Tutto questo arriva. Ed è bello, bellissimo”, aggiunge Pippo.
Tanto con il club quanto con la Nazionale, la scalata l’ha portato ai palcoscenici più prestigiosi del panorama cestistico internazionale. Ma se con le squadre per cui ha messo a disposizione la sua capacità da glue guy ha spesso aggiunto trofei alla sua bacheca, con la maglia azzurra manca ancora la sensazione di assaggiare una medaglia. Di qualsiasi metallo.
Entrando nell’ultimo ciclo di una carriera che ha già avuto due vite accomunate dalla costante pazienza e crescita, ma in netta contrapposizione per gli obiettivi da raggiungere, Pippo Ricci sta imparando a sognare qualcosa che sia più grande di lui. “Lo Scudetto te lo ricordi tutta la vita, ma vincere in Nazionale crea qualcosa di diverso: proseliti, uno sprint al movimento. Le conseguenze sono molto più belle, più ampie”, dice con ambizione.
L’appuntamento con la gloria è rimandato a poco meno di quattro anni dal suo 33esimo compleanno, quella seconda Olimpiade che potrebbe culminare una carriera sempre verso l’alto. “Questi quattro anni sono nella maturazione e nel momento giusti per vivere qualcosa di bello, di concreto”, afferma. Pensando anche ad EuroBasket 2025, o al Mondiale 2027.
“Nella mia mente matematica malata, è come se ogni ciclo fosse un sottoinsieme di quello prima. Ogni grande ciclo è condizionato dal precedente, più piccolo. Si può sempre fare meglio. Nella mia testa non c’è mai lo scollinare e tornare indietro. C’è sempre un ciclo che dev’essere ancora migliore di quello attuale”, aggiunge ricordando la sua predisposizione da matematico.
“Non voglio ancora ammettere a me stesso che faccio 33 anni: obiettivamente, comincia un altro ciclo, un nuovo miniciclo”, dice Pippo guardando al futuro.
Un futuro che approccerà con la stessa ambizione di sempre, accompagnata dalla pazienza. Passo dopo passo, un applauso a un compagno, un sorriso ad un bambino, un ritorno in Tanzania, un’altra fascia di capitano al braccio. Pippo Ricci ha imparato che attendere l’ha reso un giocatore migliore, una persona migliore. E attenderà.