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Italians, Matteo Zuretti e i tre step: imprenditorialità, innovazione, crescita

C’è una routine comune a tanti appassionati di basket italiani, un rituale quotidiano che ciclicamente si ripete dall’autunno alle porte dell’estate. Svegliarsi al mattino e, tra le prime cose che si fanno, aprire un’applicazione di risultati sportivi – o alcuni profili di un determinato social network – per avere una benché minima idea di quanto accaduto nella notte NBA. Un gesto che ci fa sentire vicini a un mondo così distante, più lontano delle (almeno sei) ore di fuso orario che ci separano dagli Stati Uniti. Negli ultimi decenni alcuni italiani sono riusciti a colmare questa grande distanza, entrando a tutti gli effetti a far parte della lega sportiva più seguita, studiata, discussa al mondo. Giocatori, allenatori, dirigenti, scout: i nomi sono tanti e rappresentano, per il movimento cestistico italiano un motivo d’orgoglio, poiché arrivati a essere parte di un ecosistema di riferimento dopo un lungo percorso, una “gavetta” galvanizzante e in grado di motivare chi sogna di percorrere le stesse orme.
Matteo Zuretti è uno di questi nomi: da quasi 10 anni parte della National Basketball Players Association, l’organismo che cura e sviluppa gli interessi degli atleti che popolano la NBA ogni notte, settimana, stagione. La storia di Matteo è quella di un innamorato della pallacanestro, di un “ossessionato dal talento, dallo sviluppo di questo”, per usare le sue parole. “Questa ossessione ha fatto sì che io ponessi la mia attenzione su ambiti diversi, come succede negli Stati Uniti. Di solito si mette nel mirino un determinato ruolo e si sogna di diventare ciò. Sono percorsi chiari, definiti e di fatto spettano a chi non è stato abbastanza bravo a giocare. Ho sempre guardato con grande interesse a chi aveva un talento innato, a chi l’ha dentro di sé e lavora per una vita intera con l’obiettivo di tirarlo fuori, metterlo in pratica, sostenerlo. Sono tre fasi differenti: scoperta, esplosione, sostenibilità. E credo che questo sia stato il focus, forse inconsapevole, della mia ricerca”.

Il viaggio di Matteo inizia da Roma e da una fase che lui definisce come “imprenditoriale”, ovvero “il rilancio di un marchio storico come quello della Stella Azzurra, con la visione di creare il migliore settore giovanile d’Europa; qualcosa di folle per come eravamo, con una sacca di 15 palloni senza avere una palestra nostra. Germano D’Arcangeli mi chiamò e mi diede delle responsabilità che in quel momento nessuno avrebbe dato a un ragazzo di 19 anni, che aveva smesso di giocare e si stava concentrando sugli studi. Ho iniziato ad allenare pensando soprattutto al reclutamento, allo scouting: concetti che allora non erano sviluppati come oggi. Ad esempio avevo una cartella con tutti i comunicati stampa della Federazione, un archivio che mi serviva per andare a vedere raduni, tornei e allenamenti”. Una delle esperienze più preziose di questa prima fase del viaggio è, come tiene a sottolineare, l’avere partecipato al Trofeo delle Regioni, qualcosa che ha permesso a Zuretti di “entrare in una specie di incubatore per giovani allenatori creato da Gaetano Gebbia, altra persona alla quale devo molto”.
La svolta, però, arriva quando il cammino di Zuretti si incrocia con quello di uno dei più grandi talenti mai espressi dalla pallacanestro italiana: Andrea Bargnani. “Qualcosa di esplosivo”, ricorda, “perché per la prima volta fui esposto a un prospetto di altissimo livello. E che mi portò a chiedermi cosa potesse servire per scoprire il talento, per farlo esplodere. Questo accelerò la mia esposizione a determinate cose. Un giorno presi un treno da Roma a Treviso, per portare i documenti per il trasferimento di Andrea (Bargnani, ndr), e così incontrai una persona come Maurizio Gherardini, un precursore. In America si dice che devi vedere qualcuno che ti assomiglia per capire che è realmente possibile. Mi coinvolsi così tanto in questa sorta di player development che decisi di perseguire qualcosa che era da sempre dentro di me, fare l’agente”.

Se la prima fase del percorso è quella imprenditoriale, la seconda è definibile – anticipando un concetto espresso da Zuretti – come dell’innovazione. Tutto nasce “da una piccola brochure di un’agenzia che si chiamava ProTalent, che mi colpì perché c’erano solo pochi giocatori. Per una serie di incastri conobbi il braccio destro di Maurizio Balducci, ovvero Stefano Lupattelli (oggi scout per i Golden State Warriors, ndr) e tramite lui iniziai a capire i meccanismi di questo mondo. Capisco che voglio lavorare per loro, e mi metto nelle condizioni di farlo. Fu qualcosa di incredibile soprattutto per l’accesso che mi fu dato sin dal primo giorno, era come andare a bottega dal maestro. Passai da un mentore formidabile come Germano a Maurizio, un maestro che mi ha insegnato cosa volesse dire pensare a livello multiculturale, dimostrandosi una persona super innovativa”.
“Un giorno”, continua Matteo, “andammo da Euronics a comprare una videocamera che mi mise in mano, dandomi l’incarico di andare in giro per l’Europa a fare i filmati dei giocatori. Ma non gli highlights, quelli della loro vita quotidiana. Fondamentalmente per i primi due anni ho fatto video room facendo content. Oggi guardo Starting Five ed era quella roba lì, ma a inizio anni 2000 con una telecamera. E questo dice tutto sulla genialità di Maurizio, una mente di altro livello. Se con Germano e la Stella Azzurra fu un contesto imprenditoriale, con lui fu questione di trovare dei modi innovativi di svolgere una professione che stava cambiando tantissimo in quegli anni, in cui si passava dalle agenzie storiche a una modalità diversa di lavorare. Esperienze che a un certo punto mi hanno portato a cercare un’altra opportunità”.

Spinto dall’esempio e dai consigli di Balducci, l’altra opportunità era la NBA, dettata anche dal fatto che la NBPA “stava cercando qualcuno che potesse occuparsi dei giocatori internazionali, con un nuovo leader – Michele Roberts – che non aveva nulla sul fronte International”. Dopo settimane di conversazioni, incontri, telefonate attese e un colloquio fatto quando tutto sembrava sfumato, sulla strada per l’aeroporto (e per il volo di ritorno in Italia) con le valigie lasciate momentaneamente nella hall, la storia ha un lieto fine. “Qui ho trovato un leader che mi ha dato fiducia, una tela bianca su cui disegnare quello che volevo a livello internazionale. Dopo la fase imprenditoriale e quella innovativa, questa è quella della mentalità di crescita continua perché i giocatori di questo livello te la impongono. L’avevo già vista in agenzia, ma qui è oltre”.
“I giocatori sono ossessionati dalla loro crescita, e ti costringono a crescere anche tu”, continua Zuretti, “perché o ti adegui al loro standard o non hai una chance di avere a che fare con loro. Tutto quello che fai, che costruisci, deve essere parametrato sul loro livello. Io non sono bravo in nulla tanto quanto un Nikola Jokic è bravo a giocare a basket, ma è più la spinta che ricevi stando vicino a loro che ti porta a dare il meglio di te”. Dopo essere stato prima Director e poi Chief delle relazioni internazionali e del marketing della NBPA, dallo scorso maggio Matteo Zuretti è il Chief Player Experience Officer dell’Associazione, qualcosa che lui definisce come un ‘ripensare la customer experience dei migliori 450 giocatori al mondo’. Parlando con lui, è immediato cogliere il rispetto e l’ammirazione per la figura dell’atleta, di ragazzi che “vivono il sogno che noi, giocando a qualcosa, non siamo stati in grado di realizzare. Vale per tutti gli entertainers, non solo per i giocatori di basket. Questo mette sulle loro spalle un peso pazzesco, quello dei nostri sogni mancati”, dice.

“Abbiamo una tendenza, una sorta di sindrome del piedistallo”, continua Matteo, “e siamo noi a metterli lì, perché sono stati in grado di realizzare ciò che noi non siamo riusciti a fare. Ma dal momento che quel sogno non l’abbiamo mai realmente vissuto, ci dà un grande gusto anche dar loro una spintarella, e farli cadere da quel piedistallo. Tanto di quello che facciamo alla NBPA riguarda il corazzarti: tu atleta sei talmente straordinario che hai le condizioni perché tu ci finisca, su quel piedistallo, ma verosimilmente a un certo punto cadrai. Anche semplicemente quando smetti di giocare, poi cosa accade? C’è un concetto importantissimo, quello che riguarda l’identità dell’atleta. Se sei solo questo, quando la tua carriera finisce cosa succede? Muori. Noi dobbiamo aiutare i ragazzi a costruire una loro identità molto più rotonda, anche perché lo sport ha bisogno di più atleti pensanti piuttosto che di ragazzi bravi soltanto a giocare a palla”.
“Prima di tutto perché il prodotto legato al campo è fondamentale, ma non è l’unica cosa che si vende. Poi perché sia l’atleta che l’industria hanno bisogno che il primo sia in controllo della propria vita. Veniamo da un mondo in cui all’atleta viene detto che deve pensare soltanto a giocare, ma il parquet è un aspetto che copre soltanto poche ore di una giornata. Il giocatore, l’individuo, deve anche concentrarsi sulla sua crescita personale, sul suo sviluppo. Quel mondo che ruota attorno a tale sviluppo deve accadere, perché poi non ci sarà soltanto un atleta ma un attivista, un filantropo, un industriale, un investitore, un uomo di cultura, un uomo o una donna curiosa. E su questo concetto, spesso semplificato con ‘player empowerment’, c’è ancora grande differenza tra gli USA e il resto del mondo. L’impressione è che in Europa ci lamentiamo che i giocatori non siano in grado di fare cose che sono importanti, e da lì si discute di come manchino i personaggi. Ma è raro che questi nascano come tali, tu devi creare le condizioni perché possano emergere”.

Zuretti continua: “Industria e atleta hanno la necessità di svilupparsi reciprocamente. Qui gli atleti hanno accesso a chiunque vogliano in prima fila, non solo le grandi star come Jack Nicholson o Beyoncé e Jay-Z. Loro possono andare a dare il cinque ai figli delle più importanti menti di business al mondo, parlare con loro chiedendo un appuntamento il giorno dopo. Quando Chris Paul è andato ai Clippers ha alzato il telefono e ha chiamato Bob Iger, CEO di Disney e una delle menti imprenditoriali di riferimento degli ultimi 100 anni, arrivando a passare pomeriggi a seguirlo far girare una compagnia multimiliardaria. Questa cosa ha impatto, ha valore. Il campo è situational, si devono allineare un milione di pianeti e alla fine vince comunque uno, mentre sulla tua vita hai molto più controllo di quello che la gente pensa. Che i giocatori possano fare questo è una cosa potentissima secondo me, perché possono ispirare noi altri, magari trasmettendo la capacità di gestire diverse cose allo stesso tempo”.
Viene naturale chiedersi, alla fine di questa conversazione illuminante, quale possa essere il ruolo che l’Italia, l’italianità ha nella vita di Matteo Zuretti dopo un decennio nel mondo NBA. “Ha un peso infinito, a partire dalla nostra agilità pazzesca, in particolare nel momento in cui ci si deve installare in un sistema molto legato a processi e procedure. Per me è stato uno sforzo capire e accettare che debbano essercene in tutte le cose che faccio, che non conta se una cosa sia giusta o sbagliata perché la procedura trascende tutto. Nel momento in cui accetti ciò e metti la nostra agilità intellettuale e culturale al centro del tuo modo di porti, di analizzare il contesto, hai un vantaggio competitivo gigantesco. Frequento altri expat a New York, ma loro lavorano per società italiane. Io sono stato immerso in contesti completamente diversi, ancora oggi mi capita di trovarmi in meeting dove sono l’unico straniero, e ogni tanto mi chiedo come sia possibile questa cosa. La risposta che mi dò è l’agilità intellettuale, la capacità di analisi fuori dal comune che ritrovo in pochissime altre culture. E in più l’Europa ci ha addestrato ad avere a che fare con persone diverse da noi, a raggiungere in un’ora di volo posti completamente diversi da casa tua”.

“La pallacanestro”, conclude, “è stata la piattaforma che mi ha permesso di vivere l’Europa al massimo, cosa perché per oltre 15 anni ho girato tutta l’Europa negli angoli più remoti e nelle città più splendenti, lavorando per un’agenzia che poteva negoziare per un giocatore lituano con una squadra di Israele. Siamo tutti completamente diversi. E poi abbiamo un brand incredibile, nonostante ci stiamo sempre a lamentare. L’unica cosa che non mi manca è il piagnisteo installato: gli altri ci adorano tutti, ci guardano come se fossimo i più fighi del mondo, ed è qualcosa che apre porte. Ho poi trovato un ecosistema, come quello della NBA, pronto, maturo e voglioso di tenere la mente aperta su certe cose, un mondo che mi ha permesso di avere la grande opportunità di contribuire. Tutti i pezzetti che si sono realizzati in Italia e in Europa sono un asset incredibile”.