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Diventare Azzurri: un viaggio con John, Jeff e Christian

27 Giugno 2024

L’ultima volta che dall’altra parte del parquet si erano incrociate sfumature arancioni era stato il novembre precedente, al Forum di Assago. Michele Vitali aveva chiuso la pratica in lunetta, dopo un ultimo quarto in cui l’Olanda si era pericolosamente affacciata nuovamente in partita.

A febbraio era stata un’andata e ritorno tra l’affascinante ‘Ithrottamidstod Asvellir’ di Hafnarfjordur, concludendo la trasferta islandese con una straordinariamente amara sconfitta dopo due overtime, ed il Madison di Piazza Azzarita, con un moto d’orgoglio azzurro firmato Amedeo Della Valle.

Iniziare luglio con una vittoria al ‘Topsportcentrum’ di Almere Stad, dunque, era particolarmente importante per affermare la superiorità nel Gruppo H delle qualificazioni europee per il Mondiale dell’estate successiva. Nella prima ufficiale di coach Pozzecco, serviva un inizio promettente.

Con 3:20 minuti sul cronometro nel primo quarto, gli Azzurri erano già scappati via sul 19-12, per non perdere più il controllo fino alla sirena finale. Un fallo in attacco dei padroni di casa era l’occasione giusta per far riposare Stefano Tonut, con il numero 77 a rimpiazzarlo sul cubo dei cambi.

Ero seduto lì, in attesa di entrare. Non so spiegarlo, ma quando ho oltrepassato quella linea per entrare in campo è stato… inspiegabile”. John Petrucelli ricorda così quei momenti, quelli che l’hanno ufficialmente consegnato alla storia come un membro della nazionale italiana.

“Avevo già il passaporto, ero già un cittadino italiano. Ma quando sono entrato in campo, ricordo di aver urlato nella mia mente “Wow”. Stava succedendo davvero”, continua. Le telecamere non lo inquadrano quando mette in campo la sua prima rimessa con l’Italia. Ma che importa?

“Fino a quel momento non sapevo se questa fosse una possibilità. La mia vita e della mia famiglia cambierà, perché mia figlia può ottenere la sua cittadinanza e le nostre generazioni future potranno fare lo stesso. Tutto questo va oltre il basket”. La sua voce si spezza mentre pensa a quanto significhi.

Nato ad Hicksville, quel 4 luglio l’aveva festeggiato sicuramente in maniera diversa dal solito, rappresentando il Paese dei suoi trisnonni con una bella vittoria. Il viaggio partito da Orta di Atella, nel casertano, e dalla Sicilia, imbarcandosi per gli Stati Uniti, aveva fatto un’altra fermata.

Volerlo fare, poterlo fare

La storia dei nostri colori è da decenni (anche) caratterizzata dall’apporto di diversi giocatori naturalizzati, nati all’estero e che solo successivamente sono arrivati a rappresentare la pallacanestro italiana in competizioni internazionali per origine o matrimonio. Non si contano sulle dita di due mani: Mike D’Antoni, German Scarone, Gregor Fucka, Mario Gigena, Dan Gay, Marcelo Damiao, Nikola Radulovic; e poi Dante Calabria, Joey Beard, Mason Rocca, Anthony Maestranzi. Tra Travis Diener e John Petrucelli ne erano passati altri due. “Non la dimenticherò mai”, dice Christian Burns quando gli si chiede di raccontare la chiamata di Ettore Messina per raggiungere il raduno della nazionale nell’estate di EuroBasket 2017. “Abbiamo bisogno che tu venga, ti va?”, mi disse. “Certo che voglio”, risposi. Disse che aveva bisogno di me e mi diede due o tre giorni per arrivare in tempo da Las Vegas, dovevo essere lì in fretta”. Lo fece. Aveva appena concluso la sua seconda stagione nel campionato italiano, con la neopromossa Brescia, raccogliendo 11.1 punti e 6.6 rimbalzi a partita al fianco dei fratelli Vitali. La prima era arrivata nel 2012-13 con Montegranaro, ad intervallare esperienze in Polonia, Portogallo, Ucraina, Germania, Israele, Dubai, Russia e Repubblica Ceca. Da lì in poi, però, sarebbe rimasto in Italia.
Quell’estate non è stata diversa dal solito solo per l’obiettivo finale poi raggiunto, ma soprattutto per il percorso intrapreso. “Ricordo benissimo tutto quello che successe dal mio ritorno a Milano, attorno al 21 giugno, fino all’inizio di EuroBasket”, Christian Burns dice lavorando di memoria. “Ogni settimana venivano tagliati un paio di giocatori. Ogni settimana non sapevo se sarei rimasto o me ne sarei dovuto andare. Due mesi rimanendo lontano dalla mia famiglia. Era faticoso, ma ho continuato ad impegnarmi più forte che potessi”, ricorda. Un’estate di attese e stress latente. “Sono venuto qui per fare tutto questo, e magari alla fine non entrerò nemmeno nel roster finale, pensavo. Sentivo un grande peso sulle spalle, e quando sono stato inserito nel roster finale, è svanito. Perché volevo davvero giocare per l’Italia”, si emoziona.

Così come successo a John Petrucelli grazie alla trisnonna, anche l’ala grande oggi 38enne – passato anche per Milano e Cantù, dov’è tornato l’anno scorso a distanza di sei stagioni dal 2017/18 – aveva imparato a conoscere un po’ di Sicilia fin da piccolo, cresciuto “24 ore su 24” in una comunità italo-americana in New Jersey, con i suoi nonni e la madre “completamente italiani, al 100%”. “Ovviamente da giovane non avrei mai pensato di giocare a basket in Italia, ma è divertente pensare a come il cerchio si sia chiuso del tutto. Quando hanno scoperto che ero riuscito a giocare per la nazionale italiana, tantissime persone mi hanno contattato. Non riuscivano a crederci, a casa erano orgogliosissimi di me”, dice con gioi pensando a quel Campionato Europeo, concluso ai quarti. Curioso come i suoi primi punti ufficiali fossero proprio arrivati nell’ultima partita disputata ad EuroBasket 2017, uscendo contro una Serbia straordinaria, piegatasi solo al cospetto della Slovenia di Luka Doncic e Goran Dragic. “Ho cercato di fare le piccole cose che alla fine risaltano e risultano utili. Volevo rendere i miei compagni migliori, un po’ più forti di quanto già fossero”, racconta. Una squadra con tante stelle, da Danilo Gallinari, Gigi Datome e Marco Belinelli passando ad un Nicolò Melli in procinto di passare al Fenerbahce. “È stato preziosissimo: mi ha sempre incoraggiato a rimanere positivo, aiutandomi su cosa dovessi concentrarmi per fornire il meglio alla squadra, quello che avrebbe fatto piacere a Messina”, Christian Burns dice dell’attuale Capitano azzurro. Dall’apprendere e ottenere consigli dai compagni d’avventura nel 2017 a condividerli qualche anno dopo, condividendo lo spogliatoio ancora una volta a Brescia proprio con John Petrucelli. In Italia ormai da sei stagioni, al momento dell’arrivo dell’ex Ulm – dove anche Christian Burns aveva giocato, nel 2009/10 – ed Hapoel Holon era facile immaginare chi gli sarebbe stato di particolare aiuto. Un rapporto diventato indissolubile, da migliori amici, che vedrà il mentore presenziare al matrimonio dell’allievo quest’estate – oltre che alla proposta. “Non ho avuto bisogno di convincerlo troppo. “Se hai l’opportunità, devi farlo”, gli dicevo. “Cambierà la tua vita e avrai questo legame con l’Italia per sempre”, aggiungevo. “È incredibile che tu possa dire di aver giocato per la Nazionale di un Paese”. È un pensiero comune, leggendo tra le righe di un altro romanzo d’amore tinto d’azzurro.

Una questione d’amore

Dopo il quinto posto a EuroBasket 2017 e con l’arrivo di Meo Sacchetti sulla panchina della Nazionale, l’Italia si apprestava ad intraprendere il percorso di qualificazione alla Coppa del Mondo 2019 in Cina. Un inizio incoraggiante, con quattro vittorie di fila in cui Christian Burns è punto fisso. Dopo due sconfitte estive contro Croazia (a Trieste, che in questa storia ritornerà) ed Olanda (a Groningen), nella finestra di settembre era giunta l’opportunità per un’altra ala grande ormai adottata dal campionato italiano di indossare la maglia azzurra per la prima volta nella sua vita. “Il PalaDozza era tutto esaurito, un’atmosfera meravigliosa. Mi sono divertito un sacco, non la dimenticherò mai”, Jeff Brooks ricorda di quell’esordio contro la Polonia, avendo “l’onore di essere parte di una squadra Nazionale e celebrando una vittoria con 16 punti, il suo massimo in Nazionale. “È stata una serata esaltante, partendo persino da titolare. Quando sono entrato in campo i tifosi sono impazziti, si sentiva l’atmosfera, si sentiva la loro energia e ho iniziato a pensare a tutto quello che mi aveva portato fino a lì”, dice portando la mente indietro di cinque anni e mezzo. Se non fosse per tre anni tra Avtodor Saratov e Unicaja Malaga, la carriera del nativo di Louisville – che ha dato i natali anche a Muhammad Ali, tra gli altri – è tutta caratterizzata da esperienze italiane: tra Jesi nel 2011 e il presente a Venezia del presente ci sono anche Cantù (come per Christian Burns), Caserta, Sassari e Milano (come di cui sopra). Ed è in Italia che ha anche trovato l’amore. “[Contro la Polonia a Bologna] mia moglie era sugli spalti, e io la rappresento ogni volta che gioco con la nazionale. Perché questa è l’eredità di questa famiglia: io sono il corpo e lei è lo spirito”, dice parlando di Benedetta, l’anima gemella che gli ha cambiato vita e percezioni. “Penso sempre al fatto che ho ottenuto il passaporto grazie a mia moglie, avendo l’opportunità di vivere all’estero dove non ho mai nemmeno sognato di vivere o di andare”, afferma parlando dell’Italia, una nuova casa. “Ho l’opportunità di essere qui per essermi innamorato di qualcuno diverso da dove vengo. Un cerchio che si chiude. Se sono salito sul parquet in Azzurro, tutto è iniziato da una storia d’amore. Non è iniziato solo con il basket. Non avrei avuto l’opportunità di essere italiano se non fosse stato per mia moglie”, dice con gioia. “Tutto ciò va oltre la pallacanestro. L’Italia mi ha dato l’opportunità di dire davvero che ora faccio parte di questa cultura, di questa gente che sento mia”, aggiunge.

Passando dal non sapere nulla o quasi sulla pallacanestro internazionale, con un’eccezione che riguardava solamente il Dream Team e le Olimpiadi del 1992, l’oggi quasi 35enne può dire di aver compiuto un percorso che l’ha portato fino al Mondiale con la Nazionale azzurra. Un qualcosa che in pochissimi possono poter affermare, e non solo raggiungendo grandi palcoscenici internazionali. È questa una delle sensazioni che lo rendono più fiero del percorso. “Davvero una piccolissima percentuale di persone ha effettivamente l’opportunità di rappresentare il proprio paese in qualcosa, non si tratta solo di basket o qualsiasi altro sport. Solo poche persone scelte da ogni paese possono rappresentare quel paese. Si sperimenta un qualcosa e si vive un’esperienza che nessun altro avrebbe probabilmente mai l’opportunità di avere”, Jeff Brooks afferma. Se dovesse dare un consiglio ai prossimi azzurri naturalizzati, sarebbe quello di farsi guidare dalla curiosità e dalla voglia di apprendere. “Impara dai tuoi compagni e fai domande ai ragazzi che hai solitamente come avversari. In fin dei conti, facciamo tutti le stesse cose. Io mi alleno, tu ti alleni. Tu sanguini e sudi, io sudo e sanguino. Ci siamo dentro tutti insieme”, afferma. Una scalata fatta di piccoli (ma significativi) gradini. Tornando alla vigilia del suo approdo a Jesi, conclusa la sua parentesi collegiale a Pennsylvania State, non lo avrebbe mai immaginato. “Mi sono spostato in Italia per allungare la mia carriera, e ad un tratto mi innamoro di una donna di questo paese; il giorno dopo siamo sposati, il giorno dopo sono cittadino italiano, e il giorno dopo gioco con la maglia azzurra addosso. Pazzesco come funzioni la vita”, Jeff Brooks commenta emozionato. “Questo Paese mi ha dato l’opportunità di trovarmi in una situazione che non avrei mai pensato di avere, venendo da dove vengo. Non ho mai pensato che avrei avuto una moglie, un figlio, una casa, o anche una carriera di basket. Una vita stupenda. Quando sono venuto qui per la mia prima esperienza giocando per Jesi, 13 anni fa, quello è stato l’inizio di tutto quello che sono qui oggi”, dice. Le sue parole non hanno bisogno di essere corredate. “Ho un senso di gratitudine enorme per l’Italia perché mi ha permesso di venire qui, la gente mi ha preso a cuore, non solo per la pallacanestro, ma a Jeff Brooks come persona. Questo è un altro motivo per cui quando ho messo piede sul parquet in quella maglia azzurra ho cercato di restituire tutto. Perché questo paese mi ha dato l’opportunità di avere una vita che non mi aspettavo di avere”, Jeff Brooks si apre a cuore aperto. “Ogni volta che ho indossato quella maglia, ho mostrato tanto apprezzamento, amore e rispetto per questo paese. E lo farò sempre”, aggiunge incrociando le dita. “Speriamo che anche mio figlio ad un certo punto sarà in grado di indossare quella maglia”, dice della prossima generazione della sua famiglia, che da Jeff e Benedetta ha dato i natali al piccolo Jordan. Poter iniziare a tracciare il percorso per ciò che verrà è stato prominente anche per John Petrucelli.

Sentirsi parte del gruppo

Se sua figlia Sienna Lynn, nata dal legame con la compagna di una vita Gina, potrà dirsi italiana, sarà grazie a un percorso lungo, caratterizzato da burocrazia ed alberi genealogici. “Mi ci sono voluti circa tre anni da quando ho iniziato forse, nel 2018. Ho dovuto trovare così tanti documenti con i certificati di nascita, matrimonio e morte di tutti, da miei trisnonni fino a me”, racconta. Una svolta è arrivata nell’estate 2021, quando Alessandro Magro l’ha voluto come una delle colonne portanti per aprire un nuovo ciclo alla Leonessa. “Quando ho firmato con Brescia, probabilmente avevo finito di raccogliere tutti i documenti al 95.0%. Loro mi ha aiutato a finire il resto, e concluso il mio primo anno in Italia ho ottenuto il passaporto È stato molto lungo, ma è stato bello perché ho imparato molto sulla mia eredità e su da dove provenisse la mia famiglia”, ricorda. Conclusa la sua prima stagione italiana, in maniera simile a com’era successo con Burns, un giorno arrivò una telefonata. Dall’altra parte della cornetta non c’era più Ettore Messina, ma un nuovo volto sulla panchina azzurra dopo l’addio di Meo Sacchetti. Prima del debutto da allenatore dell’Italia nella sua Trieste per l’amichevole con la Slovenia, Gianmarco Pozzecco voleva quello che sarebbe diventato nell’annata successiva il Miglior Difensore dell’intera LBA. “Poz mi aveva chiamato quando la stagione era già finita. Era la prima volta che parlavamo. È stata una grande conversazione e ha detto che gli sarebbe piaciuto avermi. Ne conoscevo l’importanza, perché dovevo giocare con la nazionale per finalizzare la cittadinanza. Significava ancora di più per me perché avevo appena passato tutto questo tempo per arrivare a quel punto”, ricorda. Un po’ come successo tanto per Christian Burns, si trattava della chiusura di un cerchio che partiva dalle generazioni che li avevano preceduti, coloro che avevano deciso di lasciare la Penisola per stabilirsi in America. “È stato un momento di grande orgoglio per me, per la mia famiglia, per mio padre. Mio nonno non è più vivo, ma mio padre dice che oggi guarda in basso e sorride. Li rende orgogliosi; il poter indossare questa maglia mi fa lo stesso effetto”, John Petrucelli aggiunge. Nonostante il momento azzurro sia stato l’entrare per la prima volta in campo in una partita ufficiale rappresentando l’Italia, non sono mancati momenti emozionanti prima della trasferta nei Paesi Bassi. Quando ha accettato la convocazione, per esempio. “Quando sono stato chiamato per la prima volta in nazionale, ho anche dovuto firmare un documento che praticamente diceva che avrei rinunciato o rimosso il mio diritto di giocare per qualsiasi altra Nazionale”, ricorda. “Se gli Stati Uniti mi chiamassero, non potrei andare a giocare con loro. Ho firmato in un attimo. La sensazione di essere desiderato, e di essere voluto da un paese da cui la mia famiglia proviene era ed è ancora speciale”, dice prima di rivivere il primissimo approccio in azzurro. “A Trieste ho vissuto una serata magnifica, un’atmosfera bellissima. Giocare per un paese è una sensazione folle”, dice.

Da quella prima amichevole all’ultima finestra, quella di febbraio in cui l’Italia ha sconfitto Turchia ed Ungheria nel cammino verso EuroBasket 2025, sono passati quasi due anni. Ma i suoi due allenatori sono rimasti gli stessi, condividendo anche uno stile di gioco che lui apprezza. “La cosa bella di Poz è che ti permette di giocare in maniera simile a come faccio a Brescia”, afferma sull’approccio alla partita di Gianmarco Pozzecco ed Alessandro Magro. Portare pressione al portatore di palla per rubare il possesso e correre in contropiede è ormai diventato routine guardando giocare John Petrucelli, e il tratto comune è uno: la libertà. “Sono esigenti, ovviamente, ma sono molto liberi nel permetterti di giocare. [Gianmarco Pozzecco] ha fatto un ottimo lavoro con tutti i ragazzi. Tutto quello che chiede è di giocare duro e fisico in difesa, che è quello che amo fare. Si lotta a rimbalzo e poi ci si diverte. Mi piace molto giocare per lui”, aggiunge. Oltre ad essere stato coinvolto fin da subito da Pozzecco, partendo in quintetto proprio contro la Slovenia nell’amichevole di Trieste, il giocatore di Brescia è stato immerso nelle dinamiche del gruppo in maniera eccezionale da parte dei suoi compagni in nazionale. In primis da Nico Mannion, con cui ha evidenti connessioni legate all’America, ma anche da tutti gli altri. Non conta lo status, per niente. “I ragazzi non mi hanno accolto come cittadino americano e naturalizzato che ha ottenuto il passaporto italiano, ma mi hanno considerato fin dal primo giorno come uno di loro. Tutti hanno fatto un ottimo lavoro con me, abbracciandomi e facendomi sentire parte della squadra. È una sensazione stupenda”, dice con gioia. Mancherebbe una sola cosa per completare l’opera. “Ho iniziato a prendere lezioni di italiano dopo la finestra di febbraio, sta andando bene finora. Sto andando sei ore a settimana, tre volte a settimana. Sono in Italia, dovrei conoscere la lingua parlata all’interno della nazionale. Non dovrebbe succedere che si debbano raccogliere attorno a me e parlare inglese, dovrei essere in grado di capire la lingua. Voglio farlo”, dice con convinzione.

Sperando di venire chiamato in vista di un’estate con il sogno Parigi all’orizzonte, l’obiettivo di John Petrucelli è quello di non avere più un traduttore. “Di solito Nico [Mannion] mi aiuta, ma il mio obiettivo è quello di riuscire perlomeno a parlare fluentemente entro l’estate. Voglio cercare di capire tutto, almeno durante i timeout”, aggiunge.

Con traiettorie, carriere, esperienze diverse, Christian Burns, Jeff Brooks e John Petrucelli hanno tutti aggiunto almeno una parola al loro vocabolario: Italia.

                                                                                                                                                  Cesare Milanti